Un ricordo di Pietro Omodeo
Emilia Rota
Non è facile per me esprimere in poche righe un ricordo di Pietro: più di metà della mia vita è trascorsa in sua compagnia. Mi limiterò a raccontare i miei primi passi con lui, perché, nonostante gli ostacoli e le rinunce che ho dovuto patire, mi sono sempre sentita felice, appagata e grata (oltre che molto invidiata) per aver incontrato il mentore più geniale, più affabile e più generoso di conoscenze, tempo e risorse. Sono una zoologa, laureata a Roma La Sapienza. È stato forse lì, all’ex Istituto Federico Raffaele, che Pietro decise che sarei divenuta la sua ultima, affezionatissima allieva. Era il 1986. Naturalmente di nome io già lo conoscevo: l’autore Pietro Omodeo era “uno dei grandi”, per i ragazzi della mia generazione un vero mito. Ricordo la raccolta di letture da Le Scienze, Storia naturale ed evoluzione (1979), da lui curata, che a noi studenti servì come prezioso supplemento ai libri di testo. La sua scrittura limpida, elegante e ricca di contenuti, il suo rigore logico, tanto nell’illustrare i meccanismi di trasformazione dei viventi, quanto nel raccontare l’origine storica dell’evoluzionismo, ci affascinavano. Quando poi “l’Omodeo” veniva a Roma per parlare di evoluzione, correvamo tutti ad ascoltarlo: scoprimmo infatti che lo stesso stile raffinato, ma anche moderno, puntuale e coinvolgente, Pietro lo aveva nel parlare. Quando lo incontrai, Pietro era stabilmente a Roma: da un paio d’anni si era trasferito da Padova a Tor Vergata. Appassionato studioso di lombrichi, Pietro cercava assistenza per un’analisi multivariata dei popolamenti di questi animali nelle isole tirreniche, lavoro che avrebbe presentato a Parigi nel luglio di quell’anno. Gli zoologi romani suoi colleghi nella nuovissima Università, e miei ex docenti, gli fecero il mio nome, poiché su quelle tecniche avevo fatto pratica preparando la mia tesi e alcuni articoli sulle libellule e la qualità dei corsi d’acqua. Poter elaborare le affinità faunistiche e biogeografiche con approccio multidimensionale rappresentava in quegli anni una novità di grande richiamo. Ma Pietro, seppi poi, fin dai primissimi lavori si era impegnato ad affiancare alla comprensione intuitiva dei fenomeni biologici, l’espressione formale data dall’analisi statistica. Ad esempio, il suo (splendido!) lavoro sperimentale sui gemelli uniovulari in Allolobophora trapezoides, iniziato a Napoli nel 1948, si concluse con uno studio sul determinismo del numero dei segmenti (1951; in coll. con la laureanda Anna Magaldi) supportato da una accurata parte statistica; questa parte, mi raccontò, fu svolta utilizzando una macchina calcolatrice manuale, raramente disponibile. Già dal nostro primo incontro scaturì in me una profonda, rispettosa sintonia. Nonostante la sua evidente superiorità intellettiva ed intellettuale, e benché per così tanto tempo sia stato ai vertici del mondo accademico, Pietro non si atteggiava mai a barone. Era figura autorevole, ma la sua disponibilità e generosità nel dare attenzione e trasmettere la propria conoscenza erano così naturali, che l’interlocutore (collega, studente, tecnico, usciere, o chicchessia) rimaneva incantato e quasi mai intimidito. Per alimentare la mia ammirazione, mi procurai la sua Biologia dell’Utet, un tomo enciclopedico, ma chiarissimo, la cui struttura e contenuto solo una mente prodigiosa come la sua poteva aver saputo architettare e dominare. Acquistai poi il saggio Creazionismo ed Evoluzionismo, da lui pubblicato per Laterza. Mi cimentai a leggerlo per intero, ma questo non era un testo per semplici laureati in biologia, era un compendio di storia della filosofia naturale e all’epoca lo trovai estremamente difficile. Pur con i miei studi classici e un curriculum universitario pieno di lodi, di fronte a tutto quel sapere e argomentare dimostravo una ignoranza abissale. Chi l’avrebbe detto che quarant’anni dopo Pietro me ne avrebbe affidata la riedizione! Torniamo agli inizi ... Io del Pietro zoologo all’epoca sapevo ben poco. Ignoravo che già nel 1959 Omodeo era l’autore più citato nel volume sugli Anellidi del Trattato del Grassé. Del resto, Marcel Avel, autore di quella sezione, così gli aveva scritto in una lettera (13.6.1956): « Permettez-moi de vous dire en toute sincérité que vos travaux sont excellents, solidement fondés et témoignent du caractère ample et moderne de votre culture et de la sûreté de votre jugement. Dans des multiples domaines ils inaugurent une époque nouvelles dans notre connaissance des Oligochètes et il est claire que vous êtes actuellement le meilleur spécialiste de ce groupe ». I senior del gruppo di valutazione ambientale a cui afferivo colsero l’opportunità di risolvere una lacuna di competenze, ovvero la tassonomia degli Oligocheti delle acque correnti, e mi chiesero di consultarlo. Pietro da subito fu generoso di tempo e di consigli e, ricordo come fosse ieri, nel suo studio alla Romanina già ingombro di carte aprì uno per uno i suoi raccoglitori e ne tirò fuori una pila di estratti sui microdrili che potevano essermi utili; dopodiché mi organizzò uno stage a Padova da Sandra Casellato, sua ex allieva e specialista di tubificidi. Rimanemmo in contatto e di lì a breve mi invitò a continuare a collaborare sui lombrichi. In una recente spedizione in Turchia (maggio 1987) aveva raccolto quasi duemila esemplari e aveva bisogno di manodopera. Accettai, ero incuriosita. L’imbarazzo di lavorare gomito a gomito con Pietro si era via via attenuato: lui persona così ricca di sapere, ma al tempo stesso cordiale e di spirito, mostrava grande apertura mentale e grande amore per la natura e tutto ciò che vive. Giorno dopo giorno mi faceva intuire che nella scienza dei vermi c’era ancora un universo da esplorare. Pietro, oltre ad essere un instancabile scavatore (era così orgoglioso dei suoi “muscoli da zoologo”!), era un eccellente anatomista di lombrichi. Ricordo i primi mesi il mio compito era annotare ciò che lui osservava al binoculare. Solo altro mio compito era contare i segmenti, ... le centinaia di esemplari di cui contai i segmenti, “perché vedi, in alcune specie hanno distribuzione bimodale ...”. Ai fini di quella ricerca, un giorno mi chiese di tradurgli un libretto in cirillico sui lombrichi del Caucaso. Non mi tirai indietro, al liceo le traduzioni erano state il mio forte. Quando vide che avevo portato a termine il compito, fu soddisfattissimo. Mi aveva detto “non è difficile”, ma ovviamente aveva bluffato (come nei giochi a carte) ... Quella fu la prima delle molte occasioni in cui Pietro, da maestro bravo e sensibile, seppe indirizzarmi verso obiettivi apparentemente fuori portata, ma che con i mezzi da lui forniti (in questo caso un grosso vocabolario ingiallito comprato a Mosca) e debite iniezioni di fiducia, rientravano nel possibile. Così avevano fatto con lui Colosi, Pierantoni, Padoa e Montalenti, mi confidò successivamente. A settembre del 1987, lo raggiunsi in treno ad Amburgo: la conferenza in onore di Wilhelm Michaelsen, uno dei padri dell’oligochetologia, fu l’ottima sede dove presentammo (a doppio nome!) i primi risultati sui lombrichi dell’Anatolia. Al ritorno, volle che iniziassi a creare un database contenente le caratteristiche morfologiche (e di variabilità) delle 70 specie di Dendrobaena, il più ricco e controverso genere di lombrichi paleartici. Il database costituiva il riferimento per un sistema esperto per l’identificazione automatica delle specie, il cui algoritmo di matching fu implementato su uno stack Hypercard dal biofisico Alfredo Colosimo di Tor Vergata. Di questo lavoro, pubblicato poi su CABIOS, Pietro era orgogliosissimo. L’anno seguente (1988) in primavera Pietro mi fece conoscere gli Hormogaster, i giganteschi lombrichi endemici del Mediterraneo occidentale: scavammo prima in Sardegna, poi in Francia e quindi in Spagna ... col Toyota di Tor Vergata arrivammo fino a Santiago de Compostela! Nel frattempo si era presentata l’occasione per me di seguire corsi di specializzazione all’estero con borse MPI e Pietro mi esortò a cogliere la palla al balzo: “Adesso vai dalla Brenda Healy dell’University College di Dublino in Irlanda a imparare tutto sugli Enchitreidi. Non li studia nessuno in Italia, anzi lei è una delle pochissime specialiste al mondo di questa famiglia”. Una nicchia vuota: infatti, gli enchitreidi sono piccoli oligocheti che devono essere identificati da vivi, osservando la loro anatomia per trasparenza, il che comporta spostare il ‘tavolino’ del microscopio in sincronia con i loro movimenti frenetici, cosa di cui Pietro forse non si rendeva conto. Ma mi stava incoraggiando a prendere il volo ... Gli diedi retta e mi iscrissi per un PhD a Dublino; scelsi come tema la sistematica e biogeografia degli Enchitreidi dei Paesi Mediterranei, in modo da potermi aggregare alle spedizioni faunistiche dei programmi MPI 40% allora ben finanziati. Per me, come per tutta la comitiva, viaggiare con Pietro, cittadino del mondo, era un’esperienza formativa ma anche esilarante. Ti trovavi ad esplorare le lande e i villaggi più sperduti senza vivere l’ansia dell’intruso, anzi fiducioso di trovare la soluzione a qualsiasi imprevisto. Raccolsi campioni di suolo in Algeria e Tunisia fino ai bordi del Sahara, e in Turchia fin sotto il Tauro. Esplorai poi anche i suoli di varie regioni italiane, sempre incoraggiata e supportata da Pietro, che nel frattempo si era trasferito da Roma a Siena. Estrarre i campioni e identificare gli enchitreidi richiese anni lunghi e laboriosi, ma per una sorta di serendipità non facevo che scoprire cose nuove! Incredibile, nell’humus dei boschi di La Verna (Arezzo) vivevano anche i rarissimi e minuscoli policheti terrestri Hrabeiella e Parergodrilus, di cui Pietro tempo prima mi aveva segnalato la scoperta nei suoli centro-Europei. Ricordo i pomeriggi a Siena quando Pietro, condividendo il mio entusiasmo, voleva gli cedessi il binoculare per osservare tutto quel microscopico ben di Dio che si agitava nelle capsule Petri … Concluso con successo il PhD, dal 1994 mi si aprì il mondo delle collaborazioni internazionali e diventai, come Pietro auspicava, e con suo grande compiacimento, una specialista a livello mondiale! Il resto è storia: abbiamo lavorato nello stesso studio a Siena fino a qualche anno fa, in seguito l’ho frequentato quotidianamente a casa sua. Da quel giorno del 1986 il filo non si è mai interrotto, un filo raro e prezioso, fatto di affetto intenso e simbiotico, dialogo intelligente, senso del gioco e umorismo, confidenza e supporto disinteressato, un bisogno infinito di comunicazione.
Marco Ferraguti
Qualche ricordo di Pietro. Ho sempre voluto bene a Pietro Omodeo, anche le volte che non ero d’accordo con lui (molte) e lui non era d’accordo con me (molte di più). I motivi del mio affetto sono diversi: uno, forse il più banale, è che ci siamo occupati delle stesse “bestie” – ossia gli anellidi oligocheti, anche se lui l’ha fatto da immenso zoologo e sistematico quale era, e io solo per “vedere come sono fatti”. Ma anche qui c’è qualcosa di strano: solo due volte – se ben mi ricordo - la comunità delle persone che si interessano di oligocheti acquatici è riuscita a trascinarlo ai nostri incontri a cadenza triennale (Pallanza, Tallin). Credo che la ragione vada cercata nella sua anima anarchica, che si estendeva, ovviamente, anche alla scienza. Furono quindi memorabili i suoi scontri con il mondo accademico “paludato”. Sono sicuro che qualcuno dei miei coetanei si ricordi una sua uscita al termine di un qualche intervento all’UZI, che suonava più o meno “ora mi ritiro e vado a coltivare la crescita del mio potere accademico del quale sento acuta bramosia”. E che dire del famoso dialogo che scrisse fra i personaggi di Pinocchio, al termine di un concorso a cattedra con esiti – secondo lui - particolarmente infelici, che venne distribuito urbi et orbi, e nel quale tutti potevano riconoscere i personaggi, ognuno dei quali incarnava uno dei membri della commissione? Ricordo ancora la fatica che fece il mio capo di allora per far ritirare le querele annunciate… E la storia della recensione, anche quella sceneggiata come un dialogo fra una persona e un camionista, che scrisse per Le Scienze dell’orribile libro antidarwinista di Sermonti e Fondi che fruttò centinaia di messaggi al giornale in difesa dei due autori (!?), e nessuna a favore di Pietro? Pietro è entrato nella mia vita quando ero giovane, e non ne è più uscito. Avevo scritto il mio primo articolo da primo autore, e da bravo giovane l’avevo mandato ad una rivista di grande rilievo (zoologico). L’allora direttore, con un aplomb notevole (il nostro lavoro era scritto in inglese) mandò due pagine fitte di commenti in tedesco. Io – si può immaginare – ero disperato, occorreva qualcuno che capisse il tedesco e la zoologia, chiesi in giro e mi indirizzarono a Pietro Omodeo, che allora dirigeva l’Istituto di Zoologia di Padova. Lo contattai tremebondo (e Pietro mi disse subito di “non fare il cinesino”) e lui mi diede un appuntamento una certa mattina alle 9.30. Appena arrivato disse a Gabriella “non ci sono per nessuno” e mi dedicò tutto il giorno, entrando a fondo nella logica dell’articolo. Una grande lezione che non ho mai dimenticato quando sono a mia volta diventato insegnante. Un’altra cosa che devo a Pietro è la comprensione che, mentre per altre discipline imparare la storia è un plus, ma non è indispensabile, quando si insegna l’evoluzione non si può farne a meno. E così mi sono studiato Lamarck sulla sua splendida antologia della UTET. E il modo di vedere l’adattamento darwiniano l’ho imparato da lui, prima che da Gould. E la storia del creazionismo – scritta con grande rispetto delle diverse posizioni da parte di un ateo militante – l’ho imparata dai suoi libri. E la capacità di viaggiare tra il piccolo e il grande? Pietro Omodeo è stato il massimo esperto mondiale di sistematica degli oligocheti: le sua dissezioni raffinate e sottili sotto ad un binoculare erano ineguagliabili (qualcuno riportò dal Madagascar qualche verme interessante su cui forse si poteva lavorare, e Pietro lo identificò con sicurezza come Nematogenia panamensis, una specie peregrina che gira il mondo con le zolle di riso). Ma poi fu anche in grado nel 1977 di scrivere un testo di Biologia generale di 735 pagine da solo, naturalmente in chiave evoluzionista, conscio che “… spiacerà , me ne rendo ben conto, a quei biologi che sono rimasti legati alla tradizione…” La presentazione a Firenze della ristampa (con molte aggiunte) di Creazione ed evoluzione due anni fa alla presenza di Pietro è stata l’ultima volta che l’ho visto, con mia grande emozione.
Alessandro Minelli
Ho avuto la fortuna di conoscere Pietro Omodeo negli anni in cui i suoi interessi per la biologia teorica, da sempre alimentati da un convinto evoluzionismo, cominciavano ad organizzarsi anche attorno alle nozioni della cibernetica e della teoria dell' informazione. A noi, studenti di Scienze Naturali a Padova, Omodeo insegnava che il vivente è un sistema attraversato da un costante flusso di materia, energia ed informazione. Ma nelle sue lezioni c' era soprattutto quel senso vivo della storia (la storia evolutiva dei viventi così come la storia dell' uomo in tutte le sue declinazioni) che ha rappresentato l' asse portante degli studi e dell’insegnamento di Pietro fino agli scritti degli ultimi anni. Dalle sue lezioni e ancor più dai brevi ma frequenti scambi di informali fra lui e i suoi studenti, in aula o nell’accogliente biblioteca dell’Istituto, emergeva una varietà sempre fresca di spunti di riflessione, per cui nell’autunno del 1968, quando giunse per me il momento di iniziare l’internato di laurea, mi rivolsi senza esitazione al professor Pietro Omodeo, del quale avevo seguito da matricola le lezioni di zoologia. La zoologia era la mia disciplina preferita, ma a quello che sarebbe presto diventato il mio relatore chiesi se fosse possibile affrontare, sotto la sua guida, un problema di biologia teorica. Richiesta presto soddisfatta. Tuttavia, mi sono chiesto più volte come mai Pietro non mi abbia mai proposto di lavorare con lui sui lombrichi. Come zoologo, infatti, egli è stato soprattutto un apprezzato studioso di questi animali, dei quali si è occupato, pur senza continuità, per tutta la vita. Settantotto anni separano il suo recente articolo sul piccolo lombrico bioluminescente Microscolex phosphoreus dalla sua prima nota scientifica e relativa alla circolazione del sangue in un' altra specie di lombrichi, argomento della sua tesi di laurea. Alla fine però, Pietro però riuscì a portare la zoologia dei lombrichi fino a casa mia e lo fece in un modo incisivo e affettuoso insieme. Nel 1989, descrivendo, assieme a Emilia Rota, una nuova specie di lombrico, le diede il nome di Dendrobaena fridericae, precisando: This species is affectionately dedicated to the child Federica, la primogenita di casa Minelli. Quando arrivò il giorno della mia laurea, Pietro mi regalò una copia della raccolta di scritti di Lamarck che aveva pubblicato l’anno prima per i classici della scienza dell’UTET. Fu allora che mi resi conto della profondità delle sue conoscenze in tema di storia delle scienze naturali e, insieme, della sua passione per i libri; di lì a poco, mi aprì le porte della sua biblioteca. Ricca, questa, di preziose opere, acquisite soprattutto negli anni trascorsi a Napoli alla fine della guerra. Fra i tanti volumi allineati sui suoi scaffali, mi colpì l’assenza di libri di Cuvier. Strano, ad una prima impressione, che non ci fosse posto per Le Règne animal né per il Discours sur les revolutions de la surface de la Terre. Ma presto avrei capito che Cuvier non gli è mai stato simpatico: era un barone prepotente e un voltagabbana pronto a seguire il potente del momento. Le sue simpatie andavano invece a Lamarck, figura di perdente a cui si doveva finalmente rendere giustizia. Una scelta di campo, questa, che ha accompagnato Pietro per tutta la sua lunga vita. Pochi anni fa – erano i giorni del suo novantottesimo compleanno –venne a Padova a presentare il suo nuovo libro Amerigo Vespucci e l'annuncio del nuovo mondo, inedita biografia fondata sulla convinzione che tutto ciò che il navigatore fiorentino ci ha tramandato in manoscritto o a stampa sia veritiero e genuino, in esplicito contrasto con una diffusa opinione secondo la quale il viaggiatore fiorentino sarebbe stato un millantatore e un impostore, indegno di dare il proprio nome al Nuovo Mondo. Vespucci come Lamarck, un imputato da difendere da ingiuste accuse. Come Pietro abbia affrontato e condotto le sue battaglie ce lo dice, senza bisogno di troppe precisazioni, il titolo di un suo piccolo grande libro pubblicato nel 1989: Biologia con rabbia e con amore. Nel suo ricchissimo mondo interiore hanno trovato spazio le intuizioni profonde e le polemiche sostenute da incoercibile indignazione, ma anche i sentimenti delicati e un’ inusuale e forse inattesa immediatezza. Siamo a casa mia, quarant’anni fa, ora di pranzo. Suona il campanello, è mia moglie che torna da scuola e chiede: "Hai preparato qualcosa, che ho fame?" "Un attimo di pazienza, oggi si mangia un luccio" "Ma come un luccio?" "Sì l'ha portato Neno [un mio studente interno]". Pia si preoccupa: "Che succede?" "Tranquilla, rispondo, io finisco di preparare in tavola, mentre Neno fa la maionese, e al lavello, a pulire le pentole, c' è il professor Omodeo.”